In Italia siamo ancora lontanissimi da un rapporto normale tra cittadino e fisco.
Le imposte sono esose. Il contribuente si sente così autorizzato a fare tutto il possibile (e anche l’impossibile) per per trovare, tra le maglie della legge, qualche “buco” che permetta di pagare un po’ di meno. O, magari, di non pagare affatto.
Quando questi “buchi” saltano fuori, lo Stato cerca di tappare la falla con qualche nuova norma. Si tratta, né più né meno, di “pezze”. Una dopo l’altra, hanno creato un sistema borbonico che rende la vita impossibile al contribuente e, a volte, anche al fisco. Troppe regole equivalgono a nessuna regola. Nessuno ci capisce più niente (a volte nemmeno noi avvocati e i giudici) e dunque sembra che, alla fine, vada più o meno bene tutto. Nella realtà, però, le cose non stanno proprio così. Per chi incappa nell’Agenzia delle Entrate la strada è tutta in salita. Anche quando ha ragione.
Uno dei mezzi più odiosi ai quali il legislatore fiscale ricorre è quello delle presunzioni. Le presunzioni sono “le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato” (art. 2727 c.c.). In sostanza, un meccanismo per cui, se è provato il fatto A, si considera vero anche il fatto B. Ad esempio, se risulta che io ho un elevato tenore di vita si presume che io abbia anche un elevato reddito.
Una presunzione, normalmente, si ricava da quello che accade di solito. “Di solito” , però, non vuol dire “sempre”!
Le presunzioni possono avere vari gradi di intensità. Possono essere “semplici”, “relative” e “assolute”. Quelle semplici sono “costruite” dal giudice, di solito sulla base di indizi. Le presunzioni relative e le presunzioni assolute sono invece previste dalla legge. Le loro conseguenze sono particolarmente gravi.
Quelle relative, infatti, invertono l’onere della prova. Nell’esempio che precede, sarò io a dover dimostrare che il mio elevato tenore di vita è consentito da denaro proveniente da un’eredità anziché dai proventi di un elevato reddito professionale.
Le presunzioni assolute sono, poi, un grossissimo guaio perché la legge non consente nemmeno la prova contraria.
L’art. 32, comma 2 del D.P.R. 600/1973 prevede una presunzione relativa secondo la quale i versamenti e i prelevamenti operati sui conti correnti vengono considerati ricavi o compensi, a meno che il contribuente non sia in grado di dimostrare
- che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito imponibile,
- o che non hanno rilevanza a tal fine,
- ovvero chi ne fosse il soggetto beneficiario.
Qualunque lettore attento noterà subito qualcosa che non suona. Perché mai i prelevamenti dal conto corrente devono essere considerati ricavi (per l’imprenditore) o compensi (per il lavoratore autonomo)? La logica dietro a questa presunzione, in realtà, è piuttosto semplice. Si ritiene che un imprenditore di solito prelevi denaro dal conto corrente per acquistare beni e servizi da impiegare nella sua attività. E che, altrettanto normalmente, rivenda quello che produce ricavandone un importo perlomeno pari ai costi sostenuti. Dunque, in assenza di plausibili spiegazioni alternative, si presume che abbia realizzato un ricavo (in nero) pari, almeno, alla somma prelevata (per pagare, sempre in nero, i fornitori).
Questa è la logica del fisco. E’ corretta questa presunzione? Non sempre.
Per un imprenditore di dimensioni medie o medio-grandi, è ragionevole presumere che un prelevamento dal conto corrente venga utilizzato per pagare una fornitura (così Corte Cost., sentenza 8 giugno 2005, n. 225).
Lo stesso non vale, però, per un professionista. Un medico o un avvocato non ha bisogno di pagare in nero i fornitori, per la semplice ragione che non ne ha. I prelevamenti bancari di un professionista, infatti, vengono solitamente effettuati per esigenze personali e familiari. In questi casi, quindi, la presunzione “prelievi = compensi” non è ragionevole.
Sino a poco tempo fa, questa critica veniva sistematicamente ignorata dai giudici tributari. Solo di recente, la Corte Costituzionale ha rimediato a questa situazione assurda. Con la Sentenza 6/10/2014, n. 228, la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’applicazione della presunzione prevista dall’art. 32 del DPR 600 a redditi diversi da quello d’impresa (cioè a quelli dei lavoratori autonomi). La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è prontamente allineata (né poteva fare diversamente): così Cassazione Civile, 6 marzo 2015, n. 4585; 10 giugno 2015, n. 12021).
Oggi, dunque, la presunzione per cui ai prelevamenti bancari corrisponde un pari ricavo o compenso si applica solo al reddito d’impresa. In questa ipotesi, all’ Agenzia delle Entrata basta dimostrare che c’è stato il prelievo. Tocca, invece, all’imprenditore provare che ha tenuto conto dell’importo prelevato ai fini della determinazione del reddito imponibile, o che quell’importo è irrilevante ai fini del reddito d’impresa, oppure indicare chi è il soggetto beneficiario.
Per i redditi di lavoro autonomo, al contrario, è il fisco a dover dimostrare non solo l’esistenza del prelievo, ma anche che il prelievo è stato utilizzato per sostenere costi riferibili all’attività professionale del contribuente e il maggior ammontare dei compensi professionali così prodotti.
E’ importante sapere che la sentenza della Corte Costituzionale produce effetti non solo sugli avvisi di accertamento notificati dopo il 6 ottobre 2014, ma anche su tutti quelli ancora oggetto di contenzioso (se si è impugnato l’accertamento contestando l’applicazione della presunzione sui prelievi).
Per far valere i propri diritti, è quindi necessario controllare attentamente i contenuti degli avvisi di accertamento ricevuti o che si ricevessero in futuro (anche l’Agenzia delle Entrate può applicare erroneamente le norme!) e, comunque, degli eventuali ricorsi proposti e pendenti in Commissione Tributaria o in Cassazione.
Anche in questo caso, il consiglio è di rivolgersi a un professionista competente ed esperto, che saprà indicare il modo migliore per tutelarsi.
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